Il confronto tra Biden e Xi

L’incontro virtuale fra Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping non ha prodotto risultati immediati, che d’altra parte nessuno si aspettava. Ma ha permesso di affermare l’unico principio condiviso fra Washington e Pechino: la competizione estrema fra le due superpotenze di oggi può e deve essere gestita. Il rischio di conflitto, intenzionale o per accidente, è troppo alto; le sue conseguenze sarebbero estremamente costose per entrambe le parti. È sulla base …

L’incontro virtuale fra Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping non ha prodotto risultati immediati, che d’altra parte nessuno si aspettava. Ma ha permesso di affermare l’unico principio condiviso fra Washington e Pechino: la competizione estrema fra le due superpotenze di oggi può e deve essere gestita. Il rischio di conflitto, intenzionale o per accidente, è troppo alto; le sue conseguenze sarebbero estremamente costose per entrambe le parti. È sulla base di questa convinzione che Joe Biden e Xi Jinping hanno cominciato a discutere le regole del gioco di quella che assomiglia a una pace fredda, più che a una nuova guerra fredda. Per capirle, guardiamo ai due giocatori.

Joe Biden è sul piano interno in caduta libera: l’approvazione (in chiave ridotta) del suo piano di investimenti nelle infrastrutture è una boccata di ossigeno ma che potrebbe non bastare. La previsione più diffusa è che perderà le elezioni di mid-term nel 2022, anche se pandemia e inflazione fossero tenute sotto controllo. La Cina è, in chiave di politica interna, un avversario utile per parlare alla classe media americana: per questa ragione, Biden ha tenuto in vita dazi e tariffe ereditati da Trump, anche se una parte del big business spinge in senso opposto. E, secondo anticipazioni del Washington Post, non manderà una delegazione diplomatica ufficiale alle Olimpiadi invernali di Pechino, come risposta alle violazioni dei diritti umani: difficile non leggere in questo leak alla stampa un ribilanciamento post-summit con Xi. Il presidente democratico, d’altra parte, non crede ai miracoli della diplomazia personale; crede invece che il potere negoziale dell’America sia rafforzato dalle alleanze internazionali. Per questo, prima di sedersi al tavolo virtuale con Xi Jinping, Biden ha sviluppato il “Quad”, il foro di sicurezza con Australia, India e Giappone; ha consolidato la proiezione navale americana nel Pacifico (incluso l’accordo Aukus con Australia e Gran Bretagna) e ha cercato, con maggiore o minore successo, di spingere gli europei a schierarsi. In breve: Biden, nonostante la sua debolezza sul fronte domestico, pensa di avere in mano carte abbastanza favorevoli per giocarsi la sua partita con la Cina. Partita che prevede un confronto sistemico fra modelli alternativi di capitalismo, una competizione imperniata sul dominio della tecnologia, una più limitata ma inevitabile interdipendenza economica e accordi parziali su temi globali – di cui è prova la dichiarazione congiunta sulla riduzione delle emissioni durante la Cop26 di Glasgow. I rischi veri di conflitto sono concentrati in Asia orientale: obiettivo primario della Casa Bianca è di impedire una crisi aperta su Taiwan, che obbligherebbe l’America a uscire da decenni di “ambiguità strategica”.

Xi Jinping, appena elevato dal plenum del partito comunista cinese a nuovo “padre della patria”, al pari di Mao e di Deng, è sua volta alle prese con una non semplice transizione economica: effetto Covid, restrizioni internazionali, bolla immobiliare, crisi energetica, producono una diminuzione di quei tassi di crescita da cui dipende la legittimità politica del regime. Xi ha cercato di compensare queste difficoltà con un nazionalismo assertivo, che sta rischiando però di isolare la Cina (già in auto-isolamento per scongiurare una nuova ondata di Covid). L’opacità dei processi decisionali nella Repubblica popolare impedisce di cogliere fino in fondo il dibattito sulle scelte internazionali di Pechino; ma una tesi che circola nella capitale è che al Plenum del Pcc siano emerse riserve su una linea di escalation con gli Stati Uniti. La percezione cinese è che l’America sia in irreversibile declino; e quindi che il tempo giochi a favore della Repubblica popolare. In vista del suo terzo mandato ai vertici del potere, Xi ha quindi interesse a moderare i toni con Washington. L’accordo sull’ambiente e l’incontro virtuale con Biden – che Pechino aveva fino ad oggi condizionato alla revoca delle tariffe americane – lo confermano. Obiettivo primario di Xi Jinping è garantire la stabilità politica interna, mentre la Cina rafforza la propria proiezione in Asia Orientale e guarda, in prospettiva storica, al sorpasso economico degli Stati Uniti prima e poi (2049) alla riunificazione con Taiwan. Che tutto possa avvenire in modo pacifico, come sostiene Pechino, è più che discutibile: dopo la stretta cinese su Hong Kong, il partito indipendentista taiwanese si è rafforzato.

Se questa è la distanza fra i giocatori, definire le regole del gioco non sarà facile. Rispetto alla guerra fredda del passato, lo scenario è reso molto più complicato dal livello di integrazione economica fra America e Cina. Qui la comunicazione non si è mai interrotta e si allarga al settore finanziario, nonostante la competizione commerciale e il confronto sulle tecnologie critiche. Pechino e Washington devono invece individuare procedure e canali di comunicazione che permettano di ridurre il rischio e gli errori di calcolo, in particolare su Taiwan – in qualche modo come avvenuto fra americani e sovietici dopo la crisi Cuba. Si aggiunge il problema, decisivo ma non ancora discusso, di futuri accordi sulle armi nucleari. E possibili scambi su Afghanistan ed Iran. Se si aprirà una fase di competizione strategica dura ma controllata e gestita, le tre ore e più di conversazione virtuale fra Biden e Xi saranno state utili.
L’Europa teme un nuovo bipolarismo, ma ha invece interesse a un accordo del genere. Solo quando capirà che geopolitica ed economia non sono più separabili, l’Europa avrà anche un’influenza globale.

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