Le elezioni tedesche sono arrivate al termine di un’estate che ci ha messo di fronte ad alcune realtà di solito ignorate o rimosse da noi europei: le rivalità geopolitiche, gli assestamenti tellurici nella seconda economia del pianeta di cui il crac di Evergrande è solo un sintomo. E i segni che il mondo sta entrando in una guerra fredda fra Stati Uniti e Cina, nella quale ci viene chiesto di schierarci. O almeno di contare qualcosa, di avere un ruolo nell’assicurare la nostra stessa sicurezza. Se queste sono le sfide, che messaggio esce dal voto in Germania? Ovviamente nel programma della Sdp, che ha vinto, figurano una politica estera e un esercito comune europei.
A Berlino e nelle altre grandi capitali i leader concordano nel ripetere gli stessi mantra e discutono dei passi da muovere per dare all’Europa quella «sovranità» geopolitica o tecnologica che da tempo abbiamo perso. Spiegano che si aspetta solo il nuovo governo tedesco per darsi da fare. C’è però una domanda che i politici non sembrano porsi: e se noi non volessimo? Se la società tedesca, quella italiana e dei principali Paesi europei in realtà avesse come modello la Svizzera? La conosciamo, la Svizzera: una democrazia solida, una civiltà secolare, aperta, dinamica. E irrilevante. Gode dei benefici della globalizzazione senza essere realmente coinvolta negli affari del mondo. E se i tedeschi volessero diventare sulla scena internazionale, con tutti noi, ciò che la Svizzera è per l’Europa? Un mansueto partner e fornitore di beni di notevole qualità, nient’altro. In fondo domenica gli elettori scelto in massa i due partiti – la Spd e la Cdu – che governano da dieci anni fondamentalmente su questa linea. La stessa avversione al Recovery Plan e dunque a un bilancio comune dell’area euro da parte del liberale Christian Lindner, il probabile futuro ministro delle Finanze di Berlino, non nasce solo dalla diffidenza verso l’Italia.
Più in profondità, riflette l’idea che l’Europa non abbia bisogno di crescere sul piano politico e istituzionale. Può restare com’è, a metà del guado. Gli indizi di questa mancanza di ambizione del resto sono ovunque, non solo in Germania. Segnalano che a noi italiani, francesi, spagnoli, olandesi – non solo a loro, i tedeschi – manca quella che un tempo si sarebbe definita la volontà di potenza. Oggi si potrebbe dire che noi – noi elettori – non siamo disposti a sobbarcarci i costi e i rischi di una reale autonomia e della capacità di proiettare la nostra influenza nel mondo. Tanto sul piano militare, che tecnologico, che economico. Perché in fondo crediamo ancora di poter sceglier e infatti abbiamo scelto di non pagare il prezzo insito nel cercare di essere una grande potenza. È qualcosa che ha manifestazioni che vanno persino oltre il metodico rifiuto delle democrazie europee di sostenere una spesa militare minimamente sufficiente ad assicurare la nostra sicurezza. In recente sondaggio, pubblicato da Ivan Krastev e Marc Leonard dello European Council on Foreign Relations, due terzi degli europei dicono che è in corso una guerra fredda fra la Cina e gli Stati Uniti; un terzo ritiene che sia in corso anche fra la Cina e l’Unione europea; ma solo il 15% degli intervistati riconosce i segni una guerra fredda fra il proprio Paese e la Cina (per l’Italia anche meno, l’11%).
Insomma pensiamo che sì, c’è un’instabilità globale che può diventare pericolosa; ma per favore teneteci fuori. È straordinario per esempio il nottambulismo con il quale seguiamo il dissesto di Evergrande, evitando di chiederci quale possa essere il significato per noi di ciò che sta accadendo in Cina. In vista della trasformazione della sua presidenza in potere a vita – l’anno prossimo – Xi Jinping sta tagliando le unghie a un capitalismo che aveva accumulato troppo potere e generato diseguaglianze potenzialmente destabilizzanti. Evergrande è caduta dopo i limiti posti al debito delle società immobiliari, quindi la stretta del regime si è estesa ai giganti della finanza privata, a quelli digitali e dell’istruzione. Altri settori seguiranno, con esiti oggi imprevedibili. Tutto questo ci riguarda perché durante la pandemia la Cina è diventata il Paese con il quale l’Unione europea commercia di più, grazie a un aumento verticale delle nostre esportazioni. Per Volskwagen è il primo cliente fuori dall’Europa. I marchi della moda ormai devono fra un terzo e metà dei loro fatturati ai consumatori cinesi. I campioni europei dei cosmetici ormai dipendono così tanto dalle vendite in Cina che Pechino ha iniziato a «suggerire» che trasferiscano laggiù le loro produzioni. Decine di milioni di posti di lavoro in Europa – tantissimi in Italia – oggi pendono dalle labbra di Xi Jinping in un modo che neanche capiamo. Sono legati all’esito di lotte di potere dentro il partito comunista di Pechino che per noi è semplicemente una scatola nera. E se vincesse la fazione che vuole reprimere di più i ricchi e i loro consumi di lusso?
Non sarebbe un problema, se noi europei non avessimo appunto una mentalità elvetica. Invece ci comportiamo come un piccolo Paese che dipende dai suoi clienti esteri e – essendo la seconda economia al mondo – abbiamo un livello di consumi interni, fatte le proporzioni, risibile rispetto alla Cina, agli Stati Uniti e inferiore persino al Giappone. Accettiamo il nostro declino demografico come se fosse una fatalità ineluttabile. Lo stesso pensare in piccolo si nota nella corsa alle tecnologie. In nome della «sovranità strategica» ora l’Europa ha deciso di investire decine di miliardi nei microchip o nel cloud, settori nei quali abbiamo già un ritardo incolmabile sugli Stati Uniti o sull’Asia: ma quando noi saremo dove sono loro oggi, loro saranno di nuovo più avanti. Non osiamo invece affrontare con la stessa determinazione il rischio dei settori meno esplorati, che i nostri concorrenti globali non presidiano già. L’informatica quantistica (il «quantum computing») trasformerà in modo radicale la capacità di calcolo dei computer e la sicurezza delle reti; l’uso dell’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati promette una rivoluzione nei servizi sanitari. Su questi territori del futuro l’Europa avrebbe l’opportunità di lanciarsi per essere leader nel mondo, non sapendo esattamente cosa scoprirà e fino a dove arriverà. Ma non ci stiamo provando. Paradossalmente, non vogliamo esplorare queste frontiere proprio perché non sono già conosciute. In fondo siamo noi, cittadini ed elettori, che preferiamo il piccolo mondo antico di ieri illudendoci che magari ce la caviamo. La pandemia non sembra averci insegnato che le considerazioni di carattere strategico e la geopolitica a volte, letteralmente, decidono delle nostre vite. Vorremmo essere piccoli, elvetici. Invece nel mondo che si prepara rischiamo di essere un elefante che cerca di sfuggire ai bracconieri nascondendosi dietro un albero.